IL TEMPO VUOTO ED IL TEMPO PIENO

Ore 13.13, un aereo militare con il suo rumore soffocato taglia il cielo sopra di me. Io nascosta sotto un cipresso polveroso cerco di accogliere la quiete del primo pomeriggio. Qui nel deserto del Negev le temperature sono molto alte fra le 11.00 e le 16.00, impossibile pensare di starsene fuori dall’ombra. Così la giornata si taglia, il momento del cammino e della scoperta si divide fra il primo mattino ed il tardo pomeriggio, così nella parte centrale della giornata è d’obbligo il riposo, la siesta, il ritiro. Così mi chiedo qual’è il tempo vuoto? Quale quello pieno?

Mitzpe Ramon, sabbia e ciottoli bianchi a perdita d’occhio, 839 metri sul livello del mare. Il sud del paesino si affaccia su un promontorio, sotto si estende il cratere di Ramon, enorme depressione di natura carsica. I colori della terra sono ricchi di sfumature e gradazioni, tanto vari che gli stambecchi della Nubia, qui numerosi, quasi passano inosservati.

Il silenzio ha una sua intensità palpabile, quasi si spalma sulla sabbia, ed i pensieri rimangono sospesi e lenti, tremolanti nel calore. Non sono abituata al calore, al caldo secco e e denso. Ho lasciato una terra zuppa di pioggia e 13 gradi di media, qui l’acqua mi appare come un miracolo.

5.000 abitanti, ho contato almeno 7 scuole nella mia breve passeggiata mattutina, ed almeno altrettanti parchi, con profumati pini d’Aleppo (Pini, C02 e deserto), qualche ulivo secolare dalle foglie strette e lunghe e tanti, tanti, bambini. Sopra un dondolo sali scendi almeno 10 bambini, 5 per parte con le loro coloratissime kippah, sorridenti e giocosi come mi sembra di vederne pochi. Non vedo cellulari, non vedo giochi di plastica. Nel giardino di una scuola vedo 5 bambine di 6-7 anni sistemare la terra intorno a piccole aiuole.

Un uccello cinguetta proprio appeso al mio cipresso, piccole opera fatte di spago, pigne e pezzi di tronco ondeggiano. La brezza delle 14.00 è leggera, niente a che vedere col vento impetuoso delle 18.00. Sono grata a questa panchina, a questo tempo vuoto ed al canto dell’uccello.

L’ATTESA AD EILAT

Stazione di Eilat. Una donna dai tratti orientali parla da sola, sorride a figure immaginarie. È bella, tutto sommato curata. Si accomoda nel suo delirio sulla sedia della stazione. L’aria condizionata è forte, fuori ci saranno più di 40 gradi. Manca un’ora e 12 minuti al nostro autobus n. 392 che porta a Mitzpe Ramon.

Qui ad Eilat il tempo sembra scorrere lentamente, cristallizzato nel blu del mar rosso, con la roccia dalle sfumature ocra immobile nel vento. Dalla finestra osservo la striscia abitata della Giordania, Aqab, le case bianche, la strada lunghissima lungo la riva del mare. Le bandiere israeliane sono appese a striscione sopra il negozietto della stazione. Anche qui imperano le grandi marche, uguali in tutto il mondo.

Fortunatamente c’è un rebooks, uno spazio dove portare libri usati ed acquistarli per pochi schekel, fra il frigo dei gelati e la vetrina dei peluches.

Qualche giovanissimo militare attende l’autobus, si mangia le unghie mentre guarda il cellulare, sulla divisa a maniche lunghe color cachi stanno appuntate piccole medaglie. Una soldatessa di 20 anni passeggia, i capelli piastrati nella coda di cavallo con un delicato shatush sulle punte. Ondeggia con un enorme zaino, sicura e in attesa degli sguardi.

Un giovane uomo è vestito con una lunga tunica blu, all’apparenza un abito giapponese.

Ora due ragazze in abiti militari si siedono davanti a me, entrambe prese dal loro cellulare, il mitra sulle ginocchia puntato casualmente verso di me. Mi è difficile abituarmi.

Forse è tempo di dedicarsi alla lettura, prima di imbarcarsi per il deserto del Negev.

Prima della partenza

A volte quando si rimane a casa lungamente, oppure solo, quando ci si concentra un poco troppo sulle proprie routine può sembrare fuori questione prendere un aereo o anche solo immaginare di andarsene per quindici giorni.

Troppe cose, troppe cose da fare, mettere un poco di ordine al lavoro, svuotare casa dall’inutile accumulo, attendere che smetta la pioggia incessante per provare quella cima che vedi due volte in settimana quando parcheggi per andare al lavoro.

Cima Dodici

E a volte, se sei davvero stanca, ti prende pure un poco d’ansia, soprattutto se non ami i controlli in aeroporto, non ricordi mai bene cosa si può o meno portare e magari la tua metà prevede interrogatori all’arrivo, in inglese.

Ormai però l’esperienza mi ha insegnato, una volta presa la porta, chiuso alle spalle l’uscio, zaino in spalle, tutto si perde nel flusso del presente. Non più costruzioni sul futuro, quel che accade da lì in poi è nell’inconoscibilità “dell’adesso in poi”. Per quanto una persona cerchi di mantenere il costante controllo, l’imprevisto è padrone e sovrano.

Forse è questo che si cerca nel viaggio, abbandonarsi all’incertezza, quel desiderio ed insieme paura che nutre.

È così che parto un giorno in anticipo, per gustarmi la calma delle lunghe attese in un altrove che non sia la mia casa (le applicazioni che affittano stanze sono un grande aiuto).

Torre Magrini Galileo (Bergamo)
Torre Magrini Galileo

Sono ospite di F., studentessa in Psicologia Clinica di Istambul, arrivo a casa sua tutta bagnata, coperta dal mio impermeabile grondante. Mi presta dei calzini felpati con il disegno di un pupazzo di neve e mi prepara il divano letto davanti al balcone. La vista di Bergamo Alta ha qualcosa di magico, le nuvole scoprono pezzi di cielo ed il tramonto intarsia il blu di un rosa soffice. Le montagne emergono dalle nubi come se non avessero piedi.

Quando dico ad F. che mi piacerebbe molto visitare la sua terra lei mi regala una cartolina, un disegno della città di Istambul, zeppa di draghi e case pittoresche, un buon incentivo al mio prossimo viaggio?

La notte mi culla nel tepore del sentirsi accolti, e il mattino mi sorprende di luce. La stazione dei treni è affollatissima anche di primo mattino, vi è un crocevia di culture e di lingue fino in aeroporto.

Il mio aereo ha i piedi

Il gate per Israele è separato da tutti gli altri, una parete di plexiglass opaco, ed all’ingresso vi sono due ufficiali a controllare i documenti. Nessuna domanda particolare se non la meta ed il controllo documenti, dopo di che mi sento finalmente al sicuro dai indagini aeroportuali estenuanti sperimentate nel 2011.

Il volo è rapido, come tutti i voli purtroppo, quasi 4 ore e sei catapultato in un mondo altro, caldo e color rena. Al controllo per il visto d’ingresso la ragazza svogliata non ha voglia di approfondire aspetti della mia vita, forse a causa delle mie ancora scarse competenze in inglese. Gli basta sentire quanto è impronunciabile per lei il nome-cognome di mio padre per lasciarmi andare con il mio visto timbrato.

Ci troviamo con A. in arrivo da Berlino alla stessa ora. I treni del binario due fermano tutti a Tel Aviv centro e con la Green Card che acquisti in stazione puoi girare in tutto Israele senza usare contanti.

Ora siamo pronte, si parte per questa nuova avventura.

Murales a Tel Aviv

L’amicizia nel tempo della crisi

L’amicizia ti salva, quando la nebbia dei tuoi pensieri prende il sopravvento, quando incespiche negli errori o nelle cattivi abitudini. L’amicizia è quella parola inaspettata, quella sorpresa del mattino insieme al caffè, quel biglietto sulla scrivania scritto a pennarello. Quel fiore portato a tradimento quando l’umore ti trascina sul fondo, quella passeggiata salvifica senza parole quando le tue sono troppo dure. L’amicizia è quella parrucca fucsia prestata alla tua faccia ancora imbronciata, con un bacio sul naso mentre brindiamo il carnevale. L’amicizia è quel paesaggio troppo bello a cui ti portano quando l’anima è ancora inquieta. L’amicizia è quella solitudine che sorride alla tua, incrociata un po’ per caso, ma che lascia un pieno nel vuoto.

Pensarlo o crederci

Vento 45 km orari, direzione nord est.  Le onde si schiantano instancabili sulle rocce nere. Nonostante questo e forse per questo tre surfisti stanno a nord sulla costa, inanellando onde con maestria.

C’è una gran differenza fra pensare di poterlo fare e credere senza ombra di dubbio che c’è la possiamo fare. A. è così,  è certa che ce la può fare e fino a prova contraria lei ce la farà.

5 minuti alla partenza dell’autobus della compagnia Thiade alla stazione. Un autobus ogni ora, con A. corriamo al noleggio, prendiamo i rampichini ruota 37.5, olio agli ingranaggi e via volando, lei davanti a me con uno sprint che mi lascia senza fiato, i capelli biondi al vento e la gonna in jeans verde muschio del nord.

E si, riusciamo a prendere il bus 8 appena in tempo, carichiamo le bici e via verso Corralejo.  C’è una bella differenza fra pensare di farcela e crederci davvero.

Elogio del surf

Oggi vorrei fare un “elogio del fermarsi”, anzi, un “elogio dell’onda”. In apparenza sembrano opposti, ma no. Per le onde mi sono fermata. Dopo viaggi dove ogni giorno ci si sposta per non perdere nemmeno una briciola di questo altro e altrove, una vacanza 12 giorni nello stesso minuscolo paese, El Cotillo,  e tutto per le onde.

Dodici giorni di Oceano per scoprire che le grandi acque iniziano oltre la sabbia, nera, bianca o dorata. E l’acqua salata parla una lingua tutta sua, di correnti, maree e rocce nascoste. Si eleva dolcemente mossa dalla luna o si prostra scoprendo denti di lava pietrificata ogni 6 ore. Le onde sono l’eco di tempeste lontane migliaia di km, indipendenti da vento e maree, e tu, con una piccola tavola tenti garbatamente di farti trasportare sulla schiuma. Siamo alle prime parole, e già l’Oceano è magnanimo, mi scompiglia i capelli e mi accompagna fino a riva. Poi scherzoso, mi rovescia nell’acqua bassa dove una corrente intensa mi risucchia verso il largo.

Quando fermarsi

20190110_173138Un dolore pulsante si irradia dell’anca al ginocchio. Fare lo stretching nella morbida sabbia umida delle Canarie può avere effetti collaterali… per non parlare di quando la tavola da surf prende il volo e ti cade in faccia, eri nell’impact-zone e non te n’eri accorta. Un poco come dare le spalle ad un felino di grossa taglia a digiuno da un  giorno.

Forse è proprio il momento di fermarsi, sospendo il surf per un giorno, nessuna levataccia, nessuna fredda muta nel tiepido sole del mattino, no impegnative salite a cavalcioni della tavola o paddeling con le braccia così fuori allenamento. Son questi i momenti distinti in cui percepisci i limiti profondi della tua forza fisica. Ma non è tutto qui… quale incredibile piacere è riuscire ad appoggiarti sull’onda  e lasciare che la sua velocità ti porti a riva. Se chiedi nel modo giusto l’onda si lascia agganciare e per un momento siamo una cosa sola.

Ora però torniamo alla pausa, concediamoci di avere un limite, concediamoci di stare come un bel cetaceo spiaggiato,  in attesa dell’alta marea.

Voglio vedere meglio

Vedere le cose da troppo vicino non è mai d’aiuto, si assolutizza. Tutto appare gigantesco ed insormontabile, o meraviglioso e irripetibile, in entrambi i casi saremo colti da emozioni potenti e paralizzante (ebetizzanti nel secondo caso).

Proviamo un attimo ad allontanarci ed ecco che a distanza il cuore rallenta il suo battito e la mente sembra meno offuscata…

Questi pensieri mi colgono mentre tento di addormentarmi in aeroporto.  L’aereo per l’isola di Fuerteventura parte alle 6.00 del mattino, e ancora non mi capacito della quiete che mi ha pervasa appena messo lo zaino in spalla e chiusa la porta di casa.

Viaggiare è come un prisma,  mette a fuoco il presente così che tu lo veda nella sua cornice insieme a tutto il resto.

Un’ ancora d’oro

Inizia un ann20190101_134532o nuovo, la luce è densa, si insinua fra gli alberi, sul sentiero gli abeti sono caduti e non c’è verso di salire il breve pendio. Unica alternativa è uscire dal tracciato e risalire fra le ramaglie. La terra è umida, impastata dalla bruma della notte, il miglior  modo per non graffiarsi è seguire le lievi tracce lasciate da qualche animale che serpeggiano rivelando passaggi liberi.

Mi ritrovo sulla giusta strada, breve salita, asfalto e nuovo sentiero che scende ad est, la meta è dentro il bosco, non ci sono sentieri ne indicazioni ma so esattamente dove andare. La memoria di giornate pumblee vagando per il bosco con il cuore inquieto mi portano direttamente al grande tronco riverso. Le sue forme sono ancora come qualche anno fa, forse ammorbidite dal muschio, un tronco dalle forme antropomorfe, riverso a guardare il cielo che traspare fra i rami.

Trovo il punto dove in un impeto solenne avevo sotterrato una scatola di carta a forma di cuore, la terra è soffice, piena di  nuove radici e non ci sono ostacoli, la scatola si è disciolta, ormai terra. Una leggera ansia lascia spazio all’esultanza, stringo fra le mani una piccola ancora d’oro. Una sorta di pegno lasciato in custodia alla terra. Memoria di un tempo dove era necessario ancorarsi al terreno per non rischiare di prendere il volo come il nonnetto di Up con i suoi palloncini.

E’ tempo di recuperare l’ancora, per scegliere quando fermarsi e prendere tempo prima di ripartire.

Relazioni

Ho iniziato questo blog con l’idea che più di ogni altra cosa il muoversi, spostarsi nel mondo, visitare e vedere cose nuove portasse al cambiamento. Ed oggi sento con chiarezza che è uno dei modi, l’altro sono le relazioni. Relazioni affettive, amicali, antiche  e nuove.

Come sono complesse, mondi da esplorare, oppure mondi esplorati, tutte lasciano un segno, una traccia a volte dolorosa a volte dolce e inaspettata. Noi cambiamo attraverso di loro, o loro cambiano per tramite nostro. Difficilmente permangono uguali a se stesse, difficilmente possiamo farne a meno, anche quando vorremmo, ed a volte si interrompono anche se non vorremmo.

Guardo una luna luna gigante che troneggia sopra il Fravort, il suo alone si espande e riluce slanciando il profilo oscuro della cresta montuosa. La notte è ombre e luce, non c’è notte senza che una luce muova le sue ombre.  Nella notte regna il silenzio, con qualche suono, un verso di un animale, un motore lontano, echi che amplificano il silenzio. Non tutto tace. Tutto si muove. Lentamente. Così fra di noi. E dentro di noi.